Perché X-Men: Apocalypse, come i due titoli che l’hanno preceduto (L’inizio e Giorni di un futuro passato), rispetto all’accozzaglia supereroistica di Avengers & Co, riesce a funzionare?
La trama si snoda come trait d’union tra i primi due prequel (2011 e 2014) e la trilogia incentrata sulla figura di Wolverine uscita tra il 2000 e il 2006. Xavier (James McAvoy) ha costruito la sua scuola per “ragazzi dotati” e, uno ad uno, vediamo comparire quelli che saranno i futuri X-Men. Magneto (Michael Fassbender) nel frattempo prova a ricostruirsi una famiglia e fare i conti con la normalità, ma pare destinato a rivivere in eterno i suoi drammi. Nel frattempo, dopo un sonno durato millenni, il primo mutante, onnipotente divinità egizia, torna a camminare tra gli uomini. Desideroso di tornare a dominare il mondo sceglie quattro mutanti (tra cui la futura Tempesta e lo stesso Magneto) per fungergli da araldi e guardie del corpo. Ma quello che gli interessa è la capacità di Xavier di poter entrare nella mente di chiunque.
Trama lineare, come ci si aspetta. Eppure, riesce a funzionare. La struttura portante di un universo coerente con se stesso di sicuro aiuta; i ruoli dei personaggi ben definiti non permettono sgomitate di primedonne (vedi Stark e Evans) o comprimari segregati a far la parte di macchiette (vedi Visione e Spiderman nell’ultimo Cpt America), ma c’è anche un’impronta meno giocosa che non arriva alla vena tragica-darkeggiante tipica degli eroi DC. Un equilibrio tra azione, effetti speciali, dialoghi e ironia. Anche la regia di Bryan Singer. Le scene d’azione hanno più respiro di quelle a cui ci hanno abituati ultimamente; nessuna frenesia caotica di calci, piroette ed esplosioni (che comunque non mancano). Il tema della diversità è trattato con cautela; assente l’enfasi retorica, al suo posto la semplice pluralità di prospettive differenti. E neanche le assurde accuse di sessismo riescono a scalfire quello che è un buon prodotto.
Al di là di tutto, è forse nelle parole di Xavier che troviamo la chiave: “You are alone, I am not.” È nel momento in cui non si pensa all’individuo ma al gruppo, al proprio mondo, all’opera intera, è nel momento in cui gli sgomitatori si fanno da parte, in cui si cerca di incastrare e valorizzare ogni elemento, dal più debole al più potente… ecco, è in quel momento che si vince.