Time Out of Mind recensione: il dramma interpretato da un inedito Richard Gere

VOTO MISTER MOVIE: [star rating=”4″]

Presentato alla nona edizione del Festival del Cinema di Roma, Time Out of Mind, diretto da Oren Moverman, porta sullo schermo un inedito Richard Gere in versione drammatica.
Film molto chiacchierato e molto atteso da pubblico e critica, ha tenuto alte le aspettative specie riguardo all’interpretazione del sex simbol degli anni ’80 e ’90, che questa volta interpreta un senzatetto, vagabondo per New York.

Da Roma Film Festival Time Out of Mind, la recensione

George (Richard Gere) è un senzatetto che vagabonda per le strade di New York, senza avere un fine preciso, tranne che quello di sopravvivere, in qualche modo.
Convinto che questa fase di vita sia solo temporanea, ma che in realtà dura da 10 anni, non riesce ad accettare di essere un clochard e di essere come gli altri del suo status, cioè, invisibile al resto della società.
Con un matrimonio fallito alle spalle, e una figlia che lo disconosce come padre, George ad un certo punto, quando nessuno, tranne i centri di accoglienza per senzatetto, lo voglie accogliere, si rende conto che vorrebbe essere riconosciuto almeno come persona; ma la trafila, per avere documenti di riconoscimento ed un sussidio, risulterà molto, ma molto lunga.

Richard Gere, diventa barbone a New York, ma nessuno se ne accorge

Moverman (autore anche della sceneggiatura), che porta sul grande schermo quello che di solito non si vede, o che anzi, fingiamo di non vedere, costruisce un film, che non ha un filo storico o cronologico del personaggio; non viene raccontato né un passato e né un futuro di George, ma la pellicola si focalizza solo su quel momento di invisibilità, lasciando costruire cause ed effetti di quello che accade, solo allo spettatore.

Richard Gere: “Devo il mio successo a film sbagliati…”

Per tutta la durata del film, Moverman cerca di mettere sempre al centro della scena George, e la macchina da presa lo osserva, lo culla, lo cura da punti di vista un po’ alla Welles, tramite l’utilizzo di riflessi di finestre, specchi e vetrine, cercando di porre in evidenza lo sforzo e la sofferenza accumulata nei dieci anni, e ancora presente nel protagonista.
L’interpretazione di Gere è una di quelle da non perdere: fatta principalmente di comunicazione non verbale, quindi giochi di sguardi e gestualità, anche l’immedesimazione fisica nel personaggio è nettamente da sottolineare (tanto che durante le riprese non venne riconosciuto da nessuno, nella Grande Mela).
Una pellicola forse un po’ troppo lunga e silenziosa (che vede nel cast anche la presenza di Jena Malone, Danielle Brooks, Abigail Savage, Yul Vazquez),  ma tante volte il silenzio dice molto di più di tante parole; ma se da una parte ciò può essere recepito come un prodotto annoiante, dall’altra parte bisogna pensare come Moverman abbia cercato di porre comunque il ritratto di migliaia di persone che sono ridotte a questo stato di sofferenza, abbandono e silenzio.
Un film da vedere assolutamente, che potrebbe vedere Gere ancora nell’olimpo degli Academy.

Articolo di Mara Siviero

Link adv