The Witch – Recensione: magistrale horror di simboli e luci

The Witch è un horror non-horror. Architrave portante che rispetta i canoni, ma il contenuto è altro. Profondo, indagatore. Metaforico, simbolico, immagini di forza evocativa e plastica. Stile imperniato su potenza visiva da cui scaturiscono letture molteplici, contrastanti, folli, ma sempre amaramente umane. Curioso notare come nel cinema più commerciale degli ultimi anni sia proprio il genere horror (v. It Follows, The Babadook) ad avere quella spinta in più che ci fa sperare che il cinema non sia poi così morto.

The Witch: grigio d’incertezza dell’uomo

Diciassettesimo secolo, New England. Una famiglia viene allontanata dalla comunità puritana in cui vive per una visione della Fede troppo estrema e personale. Grigiore di luci, di volti. La natura stessa ammorbata in un pallore ostile. Al limitare di una foresta, il padre capofamiglia William (Ralph Ineson) decide di erigere la loro nuova casa. Fratellino neonato scompare mentre è sotto la custodia della sorella Thomasin (Anya Taylor-Joy). La madre Katherine (Kate Dickie) non riuscirà a perdonarla.

La regia di Robert Eggers fa già una scelta anticonvenzionale. Invece che lasciar macerare lo spettatore nel “chissà cosa è successo?”, presenta una strega che s’impossessa del neonato per ucciderlo e farne un unguento. Corpo nudo di donna decrepita in un atto quasi disperato di ritualità. Il buio è padrone. Non c’è mostro nella strega, solo angoscia.

Strani accadimenti nella famiglia. I due piccoli gemelli cantano filastrocche inquietanti e dicono di parlare con un caprone. La madre cerca nella fede una salvezza, il figlio maggiore è ossessionato dall’impurità dei pensieri d’adolescente. Il padre tenta di mascherare ipocrisia e bugie. La figlia è solo confusa dall’assurdità del mondo, delle persone. E, piano piano, si ha l’impressione che il fato della famiglia sia segnato. Ma non dal Male, dalle streghe, dal bigottismo o dal Diavolo; bensì dalla stessa fragilità di ogni essere umano.

The Witch: impatto visivo e angoscia terrena

Ogni inquadratura è studiata per lanciare qualcosa. Un messaggio, un’impressione, un timore, una scena pittorica. Cene famigliari, figure caravaggesche che tentano di strappare al buio la loro fisionomia, ieratica divisione del pane. Paesaggi grigi, estranei, popolati da nuvole e bruno d’alberi, dove l’uomo non è che un viandante minuscolo, perso davanti al labirinto dell’inconosciuto.

Recitazione intima, tormentata. Kate Dickie è splendida madre ossessionata dalla perdita del figlio e della fede, divorata dal seme della colpa che scarica su spalle d’altri. Ineson è uomo tutto d’un pezzo, che arranca tra principi e necessità facendo fatica a trovare un equilibrio. Anya Taylor-Joy è l’occhio ingenuo, angosciato che osserva lo sfacelo del mondo attorno a sé.

Nessun tentativo di ingannare lo spettatore con musica e balzi improvvisi di improvvisi mostri. Anzi, la musica è parte dell’atmosfera grigia, d’incertezza. E l’angoscia si insinua lentamente, non attraverso la tensione e il colpo, ma sul sottile timore di identificarsi con ognuno dei protagonisti.

Per concludere…

The Witch è molto più che una storia horror di stregonerie e tragedie. Nella parabola oscura della famiglia puritana possiamo leggere lo scontro tra dogma, necessità e volontà. Possiamo leggere l’incapacità di leggere noi stessi prima che gli altri. Il timore esistenziale che, nel mondo, l’unico spazio veramente nostro sia quello della nostra coscienza.

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