The winter’s tale – Il racconto d’inverno – Commento

The winter’s tale – Il racconto d’inverno di Shakespeare è giunto al cinema nella sua veste teatrale: un po’ di nicchia, ma splendido. In scena, la Kenneth Branagh’s Theatre Company al Garrick Theatre di Londra. Nel cast giganteggiano lo stesso Branagh e la sempre straordinaria Judi Dench (PhilomenaLa Casa per Bambini Speciali di Miss Peregrine).

Spettacolo con regia di Rob Ashford e Branagh. Prima della messa in scena, una sua breve analisi del testo. Nell’intervallo, interviste e spunti che ci fanno cogliere (se ce ne fosse bisogno) la statura universale ed eterna di Shakespeare.

The Winter’s Tale – il triste demone della gelosia

The Winter’s Tale narra la storia di Polissene (Hadley Fraser) e Leonte (Branagh), i re di Boemia e Sicilia. Amici d’infanzia, come fratelli, si ritrovano a passare mesi insieme alla corte del secondo. Al momento di partire, Polissene viene convinto dalla moglie di Leonte, Ermione (Miranda Raison), incinta del secondo figlio, a restare. Mutamento nel cuore del re di Sicilia. La vicinanza tra la moglie e l’amico scatena in lui il demone della gelosia. Branagh è magistrale nel rendere la sottile follia che striscia tra il baratro della paranoia e un mosaico di piccoli gesti e banali parole. Anche davanti ai ragionamenti e agli scongiuri del fedele servitore Camillo, riesce a farci dubitare di ciò che crediamo di sapere. La regina è davvero incolpevole?

Polissene costretto alla fuga con Camillo, la regina incarcerata. I servitori intimoriti dalle minacce. Tutti a parte Paulina (Judi Dench), che, figura che fa della dignità la sua ragione di vita, tiene testa a Leonte. Ma senza riuscire a salvarlo. Anzi, esasperato dal dubbio di tradimento, farà abbandonare dal marito di Paulina la neonata figlia. Vergogna. Orrore. Disgusto. Questo porta alla morte prematura del primogenito di Leonte e della regina. Branagh spezzato, confuso, come morto ma ancora vivo. Acquista solo ora la coscienza delle sue azioni. Del suo essersi lasciato consigliare dal triste demone della gelosia. Ed è una coscienza che pone una pesante domanda: esiste davvero un modo per potersi perdonare?

Due facce di una stessa medaglia: tragedia e commedia. La prima parte dell’opera rappresenta la prima. Ne segue i canoni, le strutture, i ritmi. Trionfo dell’emozione, della follia, dell’irrazionale. Leonte è un Otello a metà. Anzi, un Otello doppio: racchiude in una sola figura sia il moro che il crudele Iago. Così doppio, ambiguo, così disperatamente e falsamente umano.

The Winter’s Tale – l’altra faccia della medaglia

Passano sedici anni. La principessa di Sicilia, Perdita (Jessie Buckley), abbandonata in Boemia, è stata salvata da un pastore e ora è segreta amante del principe Florizel (Tom Bateman), figlio di Polissene. Leonte non è dimenticato: si prostra sotto il peso di una non vita spaccata a metà dalla colpa. Ma in Boemia il clima è festante. È canti, danze. Le coreografie, nella prima parte assenti, qui sono esaltate. Le luci si accalorano, i toni si fanno giocosi. Sprazzi di commedia dell’arte. Amore impossibile tra due giovani, il servo risolutore (Camillo), il furfante, il padre severo. E la trama si avvita su se stessa, ricongiungendosi alla fredda corte di Sicilia.

Qui, riconoscimento della figlia e perdono. Il gelo permane nella scelta delle luci e nella scarna ieraticità di movimenti e pose, ma la non vita s’attenua e l’uomo capisce come ci si può perdonare. Finale lieto a metà, con moglie rediviva, ma un figlio quasi dimenticato che è traccia invisibile di una ferita che non si rimarginerà mai.

The Winter’s Tale – il Tempo divide ogni cosa

Scenografia non scarna ma neanche protagonista. Pensata per non pesare e per non essere invisibile. Insomma, come anche nel cinema, il primo pensiero di Branagh è far risaltare gli attori. O, ancora meglio, le parole. Il Bardo. Sì, perché anche la recitazione è improntata a questo. Si toglie l’eccessiva enfasi, senza dimenticare lo stile classico. Branagh e Dench da commozione. Pulita, senza arzigogoli o coup de theatre, la regia presenta la storia nel modo più vero possibile, badando solo a sottolineare la forza del testo, la sempiterna presenza del Bardo. Tra costumi e proiezioni, ci viene presentato un tempo senza tempo in cui tutti ci possiamo riconoscere.

Ed è proprio lui il protagonista. Il Tempo. È nella Dench che prende la parola per annunciare l’inusuale passaggio di sedici anni. Lo vediamo in come Leonte rivede nel figlio una copia di se stesso. Quello sguardo scruta in realtà non un ragazzo, ma un sé antico, ormai invisibile, ma impossibile da dimenticare. È sempre in Branagh/Leonte quando prende in braccio la figlia neonata, cercando con gli occhi una somiglianza che gli scacci i dubbi di adulterio, è Lui che sembra invocare. Sembra quasi pregare di riuscire a vederla tra molti anni, nel momento in cui le somiglianze con lui si mostreranno del tutto.

Ma soprattutto, il Tempo vive nell’immortalità di questo racconto. Nel succedersi delle stagioni. Nella sua potenza trasmutante, in come cambia oggetti, rapporti, visioni del mondo, e anche se stesso. Nel suo essere l’unica divisione possibile tra tragedia e commedia. E, futuro o passato, nel suo essere strumento unico del perdono.

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