The dressmaker – Recensione: confusione poco graffiante

Sembra partire bene The Dressmaker con Kate Winslet e Liam Hemsworth. Una ragazza, dopo aver viaggiato in ogni parte del mondo e essere diventata sarta e stilista, torna nel villaggio australiano in cui è nata dopo che era stata cacciata quando era bambina.

Arie da western; paesino sperduto in mezzo al deserto, un passato oscuro, forse un omicidio, una Winslet che sembra avere un piano per vendicarsi delle bassezze che ognuno dei bifolchi del paese le ha inferto. Suggestioni da Chocolat: nel primo quarto d’ora il film sembra suggerire che ci sia una sorta di magia dei vestiti, un incantamento che riesce a imprigionare le volontà degli uomini attraverso un colore o una spalla scoperta. Unico problema è il rapporto con la madre – la pazza del villaggio – e con il belloccione di turno (Hemsworth).
Poi l’aria frizzante e graffiante si perde in problematiche da family drama, in ricordi dolorosi, nella strana compiacenza della protagonista che, all’improvviso, sembra desiderare soltanto di essere accettata da quelli che disprezza. Crolla il freddo e accattivante personaggio votato alla vendetta, per far posto a una ragazzetta emotiva e insicura. La madre indossa il cliché del matto simpatico che dice la verità, ma nell’atmosfera finto-drammatica risulta solo ridicola. La sceneggiatura si fa macchinosa, affaticata, ci si trova a interrogarsi sui perché dei personaggi senza trovare una risposta. Anche le scelte registiche si fossilizzano e perdono smalto; la bella scenografia desertica non viene più sfruttata a dovere, e la stimolante aria da western si perde in un’atmosfera da soap opera.
Vengono fuori gli altarini, i ricordi, le cattiverie. Si tenta di accentuare il lato tragico ma, mancando una logica di storia e personaggi, lascia solo delle risate non volute. La musica è pesante, invasiva, fuori luogo. I personaggi cambiano vestiti e carattere in un attimo (proprio come in una soap…) e, alla fine, ci dobbiamo pure sorbire la sottesa moralina dei pazzi che sono gli unici sani (sigh!).
Negli ultimi dieci minuti il ritmo torna lucido, frizzante, ma il pubblico s’è già perso nella melassa delle facili emozioni. Poca leggerezza e personaggi non abbastanza caricati per essere un pulp, poca forza emotiva per risultare un film drammatico. Difficile giudicare gli attori con una struttura così alla rinfusa.
Lampi di vivacità nel primo e nell’ultimo quarto d’ora. È tutto il resto che manca.

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