Smetto quando voglio – Recensione

Smetto quando voglio - Recensione«Bevi?» «Sì, ma smetto quando voglio». «Fumi?» «Sì, ma smetto quando voglio». «Hai creato una nuova droga e la spacci?» «Sì, ma smetto quando voglio». C’è chi parte prevenuto sul film italiano, lo reputa non all’altezza di grande produzioni straniere, e a volte fa bene. A volte, invece, dietro a qualcosa che sembra banale, si rivela un ironico, divertente e amarissimo spaccato della realtà italiana. E prima di andare avanti, mettere in sottofondo questa canzone (che è anche l’azzeccatissimo brano in apertura del film).

Pietro è un ricercatore precario. Trentasette anni e geniale, vede sfumare la sovvenzione per la propria ricerca, e con essa la possibilità di un lavoro vero, di un contratto a tempo determinato e di una stabilità economica, a causa di una malata commistione tra tagli alla ricerca e traballanti appoggi politi che lui non ha. Di conseguenza, anche il suo lavoro precario sfuma via, con la sensazione di impotenza di fronte a un mondo che ruba il futuro. Ha una fidanzata che lavora come assistente sociale nei centri di recupero dalla tossicodipendenza, da ripetizioni a svogliati studenti che in realtà non lo pagano, inventando scusa su scusa. Gli amici di Pietro sono nella sua stessa situazione: due latinisti di fama mondiale che lavorano come benzinai presso un distributore di benzina gestito da un cingalese che li paga a nero, ed è lì che scopre che uno dei ragazzi cui da ripetizioni, e che ha con lui un debito di oltre 500€, è in realtà un ricco viziato col macchinone, che passa le serate in discoteca, a “spaccarsi” di pasticche. Pasticche da 50€ l’una. Da lì a sviluppare l’idea, è un attimo. Basta cercare le persone giuste. Un chimico sopraffino che fa il lavapiatti in un ristorante cinese, con la prospettiva di arrivare da lì a sei mesi addirittura cameriere di sala; un antropologo esperto che cerca disperatamente un lavoro, al punto di definire la propria laurea come «un errore di gioventù» pur di essere assunto in una autodemolizione; un fine economista che si reinventa, cercando di applicare la statistica matematica al poker giocato con romaní sinti; un archeologo che non riesce nemmeno a portarsi il pranzo quando è al lavoro in cantiere, e che si ritrova ad accettare l’offerta di un boccone di panino da un operaio che stava per distruggere una lapide romana.

Lo spaccato dei personaggi è già triste di per sé: persone geniali su cui “la società” non ha voluto investire, che a seguito dell’idea di Pietro si ritrovano a creare la droga perfetta, la sostanza psicotropa che non è negli elenchi ministeriali delle sostanze vietate. Venderla non è illegale, e nemmeno produrla. Certo, non hanno autorizzazioni sanitarie, non rilasciano fatture… Ma la sostanza non è perseguibile a norma di legge – almeno fino al prossimo aggiornamento degli elenchi. E hanno fortuna, hanno una fortuna incredibile perché la sostanza piace e funziona. Gira sul mercato, loro fanno soldi a palate. Migliaia di euro in una sera. Decine di migliaia di euro, quando entrano nel giro delle feste dell’alta società… Cosa che di certo non va a genio a chi deteneva prima il monopolio romano dello spaccio.

Smetto quando voglio è un film divertente. Si ride, perché il suo modo di essere salace, la sagacia e l’ironia di Sydney Sibilia (al debutto sia come regista che come sceneggiatore) sono elementi dinamici, vivaci e aggiornati. Non mancano situazioni paradossali e al tempo stesso assurdamente realistiche, e si ride. La ‘banda dei ricercatori‘ è quella che potrebbe essere formata da chiunque. Qualsiasi precario d’oggi, che fa quattro lavori al mese, molti non in regola, per riuscire a racimolare abbastanza soldi da mettere un piatto in tavola ma non da pagare le rate dell’ascensore condominiale. Chiunque potrebbe essere in quella banda, disposto a tutto per comprare una lavapiatti da mettere in casa, quella casa in cui convive da anni ma nella quale non ci sono prospettive se non c’è un lavoro, se non c’è uno stipendio fisso in grado di permettere di avere non solo un presente, ma un futuro.

È un film che può essere visto in due maniere: una è quella più divertente, ed è nell’occhio di chi ha un lavoro fisso, o di chi lo ha avuto e ora è a posto con la propria pensione e che vede i propri figli con un lavoro fisso, sapendo che sono fortunati e che avranno delle possibilità in più. L’altra è quella dolorosamente divertente, ed è nello sguardo di chi ha una laurea e fa il cameriere, o non ha una laurea ma non riesce nemmeno a fare il commesso in un negozio di ortofrutta, o chi in entrambi i casi si ritrova con contratti di collaborazione a progetto, a tempi determinati dalla durata breve e imbarazzante, e delle relative famiglie, che sono ben a conoscenza della disperazione per il futuro di questi figli.

Smetto quando voglio - Recensione

Ci si alza dalla poltrona divertiti, ma con senso di amarezza che pesa sullo sterno. L’opera prima di Sidney Sibilia è un ironico dolore, anche grazie alla scelta di volti più o meno noti, ma tutti meritevoli di essere menzionati: Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti e un Neri Marcorè di piccola presenza ma di massima importanza. In che maniera? Andate a vederlo al cinema, perché ne vale veramente la pena, come di dare un’occhiata al sito ufficiale smettoquandovoglio.it.

Smetto quando voglio è un film divertente, e fa male pensare che si riesca a ridere di una situazione come quella rappresentata: uno spaccato tremendamente reale, in cui tutti potremmo essere un ricercatore disperato che non perde la voglia di lottare per se stesso e per chi ama. Anche sbagliando, anche finendo nei guai pur di cercare di costruirsi un futuro. Una fetta di realtà che non va mai dimenticata, strizza gli occhi a chi quella situazione la vive e fa riflettere chi non se ne rende appieno conto. Un film da vedere, assolutamente, per dare forza non solo alla condizione che vi si vede, ma a un cinema italiano che si rivela con un potenziale tematico sempre maggiore, senza perdere verve. Na-na, why don’t you get a job?
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