Only Lovers Left Alive: la recensione in anteprima

Jim Jarmusch parla di un’umanità in declino facendo un insolito uso del tema del vampirismo. Fino ad oggi metafora di desideri inconsci da appagare che portano l’uomo ad allontanarsi dalla sua stessa natura limitata (cfr. Dracula di Bram Stoker), il vampirismo in Only Lovers Left Alive diventa una condizione che nobilita l’animo e l’intelletto dei protagonisti; sono Eve, Adam e Kit i vampiri che fungono da custodi della sapienza accumulata nei secoli dall’uomo, apostrofato ora come zombie. In questa prospettiva capovolta in cui lo zombie senza vita nè intenzioni è l’essere umano amorfo, indifferente e assuefatto dai vizi, il regista dà una sua chiave pessimistica di lettura: l’uomo non conosce che il degrado e da ciò che ha creato verrà distrutto. Chi può conservare e comprendere la purezza dell’ingegno umano è una creatura borderline, che vive nascosta ed emarginata, che quasi non si sente umana perchè differisce da quelli che sono i parametri di riferimento; è un vampiro, ovvero un uomo che si sente diverso dal resto del mondo.

Tuttavia nemmeno Jarmusch fornisce una soluzione al problema della decadenza dell’essere umano: la storia di Eve (Tilda Swinton) e Adam (Tom Hiddleston) rimane fine a se stessa, senza risvolti consistenti, chiusa in un confine impenetrabile allo spettatore. Il regista non ci coinvolge a pieno nella vicenda, rende i personaggi impenetrabili, contriti in una rabbia nota solo a loro, non sviluppando di per sé valide motivazioni che spingano anche il pubblico ad empatizzare col loro malessere.  Non basta sentire sparsa qua e là nei dialoghi la parola “zombie” come insulto rivolto agli umani, o il rancore di Kit verso Shakespeare, o ancora le invocazioni di Adam all’Epoca d’Oro. Il film rimane una metafora impenetrabile, difficoltosa da comprendere e da sciogliere, in cui i personaggi sembrano sfuggevoli e la trama poco funzionale al messaggio che il regista vuole trasmettere.

È un film che non ha voluto scoprirsi e farsi scoprire, chiuso in se stesso in una critica poco costruttiva che non dà soluzioni al problema, statico nei tempi registici e nella narrazione. Lo stile di Jarmusch prevede tale staticità grazie all’uso di lunghi piani sequenze e ad ambientazioni sempre uguali a se stesse, poco mutevoli, che riflettono l’incapacità dei suoi personaggi di evolversi (in questo caso la stanza di Adam e i vicoli di Tangeri). Tuttavia una scelta stilistica simile portata all’estremo, come in questo caso, può delineare personaggi con profili accidiosi segnati dall’indifferenza e quindi controproduttivi al senso del film. Il finale è tutta una dichiarazione d’intenti: Eve e Adam sono costretti a ritornare a “cacciare gli esseri umani” come nell’antichità, abbandonando il loro artistico savoir faire. L’uomo non potrà mai liberarsi del suo lato animale, quindi sarà sempre destinato al fallimento. Jim Jarmusch cerca l’innovazione, ma risulta essere poco incisivo.

di Myriam Petrini

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