Of Girls and Horses (titolo originale Von Mädchen und Pferden), uscito a maggio del 2014 e diretto da Monika Treut, è uno dei lungometraggi che più mi avevano incuriosita spulciando il programma del Some Prefer Cake di Bologna e che non vedevo assolutamente l’ora di vedere: sia per la trama, che sembrava molto promettente, sia per la fotografia (del resto la Germania è pur sempre la Germania, e i paesaggi mozzafiato non mancano mai).
Il film si apre con Alex, sedicenne disadattata con forti tendenze all’autolesionismo che, dopo aver lasciato la scuola per spaccio e abuso di sostanze stupefacenti, viene costretta dalla madre adottiva a trascorrere l’estate in una fattoria sperduta del nord della Germania dove dovrà passare le sue giornate ad occuparsi dei cavalli. La fattoria è gestita da Nina, lesbica trentenne che addestra ed adora i cavalli e che di tanto in tanto torna in città dalla fidanzata Christina. Guidata da Nina, Alex comincia un importante percorso di crescita interiore e un lavoro su se stessa, proprio grazie all’aiuto dei cavalli, intelligentissimi animali che le insegneranno a essere più presente e consapevole del proprio peso nel mondo e meno presa dai propri pensieri e dal proprio egoismo. L’arrivo alla fattoria di Kathy, adolescente di classe alta, con il proprio cavallo è per Alex una sorta di test: nonostante le differenze, infatti, tra le due nasce subito un’intesa, finché un weekend non rimangono sole nella fattoria e perdono il controllo. Ed è proprio in questo momento che Alex dovrà cercare di mantenere il ritrovato equilibrio, anche in presenza di un crescente desiderio nei confronti dell’amica.
Il conflitto che si presenta in Of Girls and Horses è puramente emozionale, ma viene reso metaforicamente attraverso la relazione tra Alex e i cavalli, inizialmente difficoltosa. È un film che si muove verso la giovinezza, l’innocenza, la bellezza e il potere, ma soprattutto verso il modo in cui essi coesistono in natura.
Ceci Chuh, che interpreta Alex, essendo di fatto la protagonista è forse l’unica a dare maggior spessore al proprio personaggio, benché durante il film non se ne percepisca una vera e propria evoluzione. Alcuni momenti del film risultano eccessivamente pesanti, si indugia troppo sulla metafora lasciando alcune scene praticamente prive di dialoghi, ed alcune parti della narrazione, ad esempio la relazione tra Nina e la propria compagna, sono totalmente disconnesse dalla trama principale. Al contrario, la fotografia è stata curata in maniera particolare, le inquadrature dei paesaggi e dei tramonti sono molto suggestive: lo spettatore si perde e si riposa, sembra quasi gli venga chiesto, come ad Alex, di godere dell’energia che lo circonda.
Il finale mi ha lasciata invece un po’ perplessa, e a giudicare dal mormorio all’interno della sala e dalle chiacchiere post-film con amici e vicini di posto, non ero l’unica a pensare che sia stato abbozzato in maniera frettolosa e poco curata. Sembra l’ennesimo blocco a sé stante, in cui molte dinamiche narrative vengono date per scontate e non si capisce bene come si sia giunti a determinati epiloghi. Nel complesso comunque l’happy ending regna sovrano e dà speranza, soprattutto se si tiene in considerazione il fatto che le protagoniste siano lesbiche, fattore che in buona parte della filmografia a tema portava spesso – almeno fino a qualche anno fa – a finali disastrosi e valli di lacrime (o “Sindrome della poiana“, come scrivono ironicamente – e giustamente! – le redattrici di LezPop).