Mine si presenta come film atipico. Il plot sembra essere preso paripari dal film francese del 2014 Passo Falso. Ma questo se ne stacca per contenuti e modalità. I registi e autori, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, hanno invece dichiarato di essersi ispirati a Buried – Sepolto Vivo del 2010. Ma Mine, quale che sia la sua ispirazione, ha invero una pecca: una regia monolitica. Dico invero perché, da due registi esordienti italiani, ci si aspetterebbe un po’ più d’attenzione alle sfumature d’atmosfera. Invece la regia è spaccona, dannatamente fumettosa. Fatica a cogliere vivacità, lirismo, leggerezza che si celano dietro la sceneggiatura. O meglio, li coglie ma in maniera univoca, senza provare ad adeguare lo sguardo alla situazione. C’è un brulicare d’idee giuste, fresche, alcune messe in scena con la giusta prospettiva. Ma la regia non riesce ad essere sempre all’altezza.
Mine – immobilismo di vita e sguardo
Fallita una missione, il cecchino Mike Stevens (Armie Hammer) si trova col suo compagno e amico Tommy Madison (Tom Cullen), a fuggire per il deserto verso un punto d’estrazione distante cinque ore. Nel tragitto, finiscono inavvertitamente in un campo minato. Tommy muore, e Mike si trova col piede sopra una mina. Non può muoversi, non può spostare il peso. È immobile. L’immobilismo è il fil rouge del film. Piano piano, scopriamo come esso sia il fil rouge anche della stessa vita del protagonista.
Mike dovrà aspettare due giorni prima dell’arrivo dei soccorsi. Due giorni travagliati dal caldo, dalle ansie, da paure passate. Dall’aver fatto sempre la scelta sbagliata. Dal non aver mai osato fare un passo in più. Un berbero di passaggio (Clint Dyer) fungerà da guida spirituale, instillandogli goccia a goccia una filosofia spicciola del coraggio.
Ottime le scene notturne con attacchi di cani. Ottime scelte di paesaggi. Ottima la recitazione di Armie Hammer. Fantasmi del caldo e di un passato represso ma mai dimenticato giocano sul suo viso sofferente. Ma i fantasmi non scavano. Non c’è gioco di regia. La situazione al limite del normale viene presentata con luci, fotografia, prospettive troppo canoniche. Gli stessi dialoghi risultano fiacchi, poco realistici. E questo non sarebbe un male se si cercassero sfumature tra ricordo e presente, tra guerra e poesia, tra allucinazione e riscatto. Ma l’occhio rimane sempre lo stesso. Troppo distaccato. Troppo da vignetta fumettistica.
Per concludere…
Ecco: se messa sulle pagine di un fumetto, questa sarebbe un’ottima opera. Non ci sono in sé lacune di narrazione, di trama, di recitazione o sceneggiatura. C’è solo un problema di prospettiva – lontana – che ci allontana forzatamente dal lato emotivo e intellettivo delle vicende di Mike Stevens. Buona prima prova. Ma si sente carenza di profondità.