L’uomo che vide l’infinito – Recensione: la solita patina delle storie vere


L’uomo che vide l’infinito
, storia vera del matematico Srinivasa Ramanujan, giovane indiano stroncato dalla tubercolosi a 32 anni dopo aver avuto intuizioni geniali su alcuni principi matematici. Ma come mai, come ci hanno ormai abituato tutte le cinebiografie tratte da storie vere, quando si parla di “vero” lo si nasconde dietro una facciata di clichet cinematografici?

Primi decenni del ‘900. Srinivasa (Dev Patel) è un giovane indiano che “vede” i principi che stanno alla base di alcuni fenomeni matematici. Prova a farsi pubblicare i suoi lavori ma, un po’ perché indiano, un po’ perché non laureato, ottiene solo rifiuti. Questo finché, grazie a un superiore che crede in lui, la sua proposta non arriva fino al professor Hardy (Jeremy Irons) di Cambridge. Incuriosito dal genio sotteso alle sue formule, questi lo invita in Inghilterra. Srinivasa lascia la moglie e la madre per inseguire il suo destino. A Cambridge il suo genio a briglia sciolta si trova a fare i conti con la “dura” realtà delle regole: per pubblicare dovrà prima dimostrare matematicamente le intuizioni che ha avuto. Incoraggiato dal suo mentore Hardy (resa straordinaria della sua introversione, ma completamente fuori personaggio per quel che riguarda la parte del “burbero maestro”) dal bonario Russell (Jeremy Northam) e da amici che scompaiono nel giro di due scene, dovrà trovare la volontà e la disciplina per mostrare al mondo il suo genio.

Anche se la prova degli attori risulta piacevole, non è ben supportata da sceneggiatura e dialoghi. Se l’assegnazione di ruoli secondo una schema fisso, consolidato, quasi macchiettistico può funzionare in alcuni generi, qui può solo lasciare perplessi sulla paradossale serialità della vita di ogni uomo straordinario.

Trame famigliari da soap opera, con dialoghi che rimangono sulla superficie della prevedibilità. Abbozzato razzismo. Sproloqui su Dio e sui massimi sistemi. Binomio intuizione-disciplina che si risolve in una sintesi molto confusa. Ammicchi tra Attimo Fuggente A beautiful mind. Inquadrature evocative ma sterili, stralci, spezzatino di scene che non riesce a dare una vera profondità alla grandezza di un uomo che ha saputo unire due mondi e due visioni. E su tutto, la patina del romanzato dà di continuo l’idea che il reale stia di casa da un’altra parte. L’uomo che vide l’infinito è una storia vera col codice a barre.

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