Lovelace recensione: è la romanticizzazione degli abusi

“I had the misfortune of meeting Chuck Traynor. He started out as a nice person and then did a complete 180 and beat me up from that day forward, physically, mentally, and psychologically. The psychological damage will never go away” (Linda Lovelace, “Ordeal”)

Fisicamente, mentalmente, psicologicamente. “Lovelace” mette in scena la distruzione di una donna, per altro realmente vissuta, causata dall’incontro col marito (Chuck Traynor) nella Florida degli anni 70.

“Lovelace” è un film biografico, uscito in america già nel 2013, diretto in coproduzione da Robert Epstein e Jeffrey Friedman. La pellicola tratta la vera storia di Linda Lovelace, pseudonimo di Linda Susan Boreman, pornodiva divenuta famosa grazie alla partecipazione (obbligata) al film cult “Deep Throat” del 1972.

L’opera è una continua mescolanza di sensazioni, punti di vista e temporalità diverse, propone infatti due visioni differenti del rapporto tra i due amanti. L’esuberanza di una giovane Susan farà conoscere il futuro marito Chuck, la severità della madre, che risulterà a tratti insensibile e rancorosa, contribuirà a rendere più sola Linda nei problemi con Chuck. A un primo momento di grande trionfo amoroso, sessuale e di felicità, corrisponde un secondo momento buio, complicato e violento. Eros e Thanatos si fondono: le pulsioni alla vita e all’amore divengono violenze, soprusi, schiaffi e stupri. Thanatos, il piacere di morte, prende il sopravvento e Chuck costringe la moglie a prostituirsi, la vende, la picchia e abusa di lei sessualmente, in un divenire di necrofilia lussureggiante che culmina con la partecipazione obbligata al porno “Deep Throat” che gli permetterà di incassare moltissimi dollari e successo.
Più Linda viene picchiata, più sembra godere, più soffre e più riesce a perdonarlo. In questo senso, la pellicola espone in maniera esemplare ciò che le donne provano in queste situazioni, le stesse donne che nella maggior parte dei casi non hanno la forza di denunciare i loro violentatori.
Si assiste, sia nel film che nella realtà, a una sorta di romanticizzazione degli abusi: le donne o le vittime, in queste situazioni come in altre, cercano di giustificare il proprio partner di fronte a tutto e tutti. Nel film, per esempio, l’amica d’infanzia chiede a Linda se sia in difficoltà ma lei risponde che “..senza botte non sono niente”.

Questa battuta surreale, che lascerebbe attonito anche lo spettatore meno attento, è in realtà un insegnamento che le donne hanno sempre ricevuto nel corso della storia dell’umanità, non concependo cosa “amare troppo” e “amare se stesse” significhi.
Quando essere innamorate significa soffrire, si sta amando troppo. A questo proposito, una lettura potrebbe aiutarci a meglio comprendere quest’opera cinematografica: “Donne che amano troppo” di Robin Norwood.
“Quando giustifichiamo tutti i malumori, il cattivo carattere, l’indifferenza, i tradimenti del partner, stiamo amando troppo. Quando siamo offesi dal suo comportamento ma pensiamo che sia colpa nostra perché non siamo abbastanza attraenti o abbastanza affettuose, stiamo amando troppo. Quando amiamo troppo, in realtà non amiamo affatto; perché siamo dominate dalla paura: paura di restare sole, paura di non essere degne d’amore, paura di essere ignorate o abbandonate… E amare con paura significa soprattutto attaccarsi morbosamente a qualcuno che riteniamo indispensabile per la nostra esistenza. […]” (Robin Norwood, “Donne che amano troppo“).

Link adv