La ragazza del treno – Recensione: thriller che si sgonfia

La ragazza del treno, tratto dall’omonimo romanzo di Paula Hawkins, parte bene. Regia attenta, lavorìo di sguardi e vetri. Il regista Tate Taylor riesce a costruire un’imponente architettura di tensioni e immagini. Ma mancano le fondamenta. Sceneggiatura e trama affossano il film. Il bel castello d’introspezione si sgonfia in approssimazioni caratteriali e superficialità psicologica. Nonché in un finale telefonato dopo i primi dieci minuti.

La ragazza del treno – triangolo di donne e ossessioni

Rachel (Emily Blunt) è una donna sterile che non ha superato la separazione dal marito Tom (Justin Theroux). Lui ha sposato l’amante Anna (Rebecca Ferguson), dalla quale ha avuto una figlia. Rachel vive tra invidia e rimorsi. Ogni giorno, il treno sul quale viaggia passa davanti alla sua vecchia casa. Vetri, finestre, profondità di visione che si mischia a immagini vivide, pensate. Ma ciò che attira Rachel è due case più in là: un lui e una lei (Haley Bennett) che, da quei pochi attimi che la fermata del treno concede, sembrano vivere una storia d’amore da romanzo. Rachel s’identifica, si strania, immagina, invidia e agogna. E beve. Ossessioni dette ma appena accennate. Si spera in un approfondimento più avanti. Invano.

Narrazione spezzettata nella visione delle tre donne. Tra flashback e cambi di prospettiva orchestrati ad arte, abbiamo però l’impressione che il punto di vista rimanga unico, incastrato in se stesso. La ragazza della casa, Megan, è la tata della figlia di Tom, ma decide all’improvviso di mollare tutto. Passato oscuro (un poco inverosimile), teso tra colpa e desiderio. Un venerdì che ha alzato un po’ troppo il gomito, Rachel vede Megan sul terrazzo con un uomo che non è suo marito. Questo la sconvolge. La sera, spinta da rabbia e rancore verso Anna e Megan, scende dal treno, inseguendo una ragazza bionda. Quanto si risveglia è in casa sua, sporca di sangue. Il notiziario riporta la notizia della sparizione di Megan. Rachel non ricorda niente. Comincia a dubitare di sé, dei suoi ricordi, della propria sanità mentale. Disperazione di un vuoto di memoria e di tracce di sangue.

La ragazza del treno – peccati di irrealtà

La regia gioca abilmente con luci e sguardi. Primi piani, particolari, frammentazione convulsa del racconto, ritmo forsennato; tutto aiuta a tenere vive l’attenzione e la tensione. Anche l’angoscia dell’ottima Blunt traspare bene e si insinua da subito nello spettatore.

Quello che manca è una buona base. Le tre donne (con l’allegoria statuaria delle tre Grazie) sono chiaramente aspetti monodimensionali di una stessa femminilità. Verso tre quarti del film appare chiaro come non si spingeranno oltre quel limite. E si appiattiranno. I personaggi maschili sono caricaturali. Macchiette fatte con lo stesso stampino. Mariti/padroni ossessionati dal potere e deresponsabilizzati (troppa autobiografia?). Non c’è analisi profonda dei meccanismi di pensiero e di perdita di lucidità. Si va avanti per cliché, e i personaggi che si formano sembrano essere plasmati da una fantasia che non ha alcun riscontro nella realtà. L’uomo-mostro, la donna-vetro sono esemplificazioni che non vengono supportate da un valido background. In questa storia che vorrebbe sembrare vera c’è troppo poco reale.

Per concludere…

La ragazza del treno parte bene, ma non tira le fila. Come una partita a scacchi perfettamente preparata, con ogni mossa che sembra presagire un colpo da maestro e invece si chiude con un banale e prevedibile sbadiglio. Risulta un thriller psicologico ben fatto e ben recitato. Ma banale (e il thriller?) e superficiale (e la psicologia?).

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