La famiglia Fang – Recensione: ottimi spunti smussati

La famiglia Fang è un’indagine sui limiti del concetto di “arte”. A questo fil rouge fa da contrappunto la riscoperta di se stessi attraverso le proprie relazioni intime. La complessità di plurime visioni genitori/figli, fratello/sorella, moglie/marito. Il tutto è trattato con leggerezza e cura, nel dettaglio, nei dialoghi, nella trama. Purtroppo il finale viene tirato via. Una svolta di trama improvvisa e risolutrice spezza l’equilibrio di tematiche e ragioni. Cade l’affascinante tensione tra finzione e realtà.

La famiglia Fang – giochi/arte di racconto/documentario

Fang è una famiglia di artisti che organizza performance all’insaputa del pubblico, per poi filmare le reazioni. Il padre Caleb (Cristopher Walken) sfrutta il potenziale artistico dei figli. Per essi vede la sua professione come un gioco, un’avventura continua. L’arte è movimento, cambiamento, vita. Un quadro è immobile, morto. Ideologia figlia degli anni ’60, di una rimessa in discussione di canoni e generi.

Il mondo cambia, i figli crescono. Lei, Annie (Nicole Kidman), è attrice che sembra aver sparato tutte le cartucce che la giovinezza e il suo nome le avevano lasciato in canna. Lui, Buster (Jason Bateman), è scrittore immobile, perso nell’apatia e in stesure sterili. Su entrambi, il pesante marchio di “figli di”. Un incidente li farà rincontrare con i genitori. Disprezzi sotterranei che tornano a galla. Infanzie perdute, sostituite dai dogmi controcorrente (ma sempre dogmi sono…) di un padre visionario che decide per tutti. Moglie inclusa. E che rimane attaccato a un’idea di arte già stantia.

Il racconto si snoda tra presente e passato. Documentari, ricostruzioni, ricordi. Nel gioco di Caleb Fang reale e inganno si mischiano senza dare risposte definite. Ma noi vediamo il dietrolequinte, e l’inganno si trasforma in domanda. Dove sono i limiti dell’arte? L’arte può calpestare l’individuo? Quanto un uomo può usarLa come scusa per andare oltre l’accettabile? E questo dualismo tra il possibile e il giusto si trasforma in disputa genitori/figli. Almeno finché padre e madre non scompaiono, lasciando solo la loro macchina sporca di sangue. Ennesima finzione, o cruento “al lupo, al lupo”?

Splendido bivio psicologico dei figli. La Kidman folle di paranoia. Sogna smascheramenti e riappacificazioni. Lui disilluso, ma l’asseconda. Crede nella realtà, e sa che l’unica riappacificazione possibile è quella con le proprie ossessioni.

Per concludere…

Poi, sul finale, la sceneggiatura diventa goffa. I bei fili tematici s’intrecciano e si raggrumano. Invece che scavare, approfondire, il film preferisce rimanere sulla scorza e appianare tutto. Ragioni sputate, vomitate, retoriche. Laddove c’è la parola, si perdono psicologia ed emozioni.

La famiglia Fang dà molti spunti. Visivi, intellettuali, emotivi. Ma sembra non avere il coraggio di portarli fino in fondo. La lama dell’indagine si smussa e cade sulla finta superficie delle risposte definitive.

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