Kubo e la spada magica – Recensione: poesia e colori

Con Kubo e la spada magica la Laika Production torna a farci rivivere la sua magia. Dopo BoxtrollsParanormanCoraline, un altro gioiello in stop-motion. Spunti e background orientali, conditi con una sapiente dose di morale disneyaneggiante che però evita il rischio stucchevolezza. Ci si diverte. Si ride. Ci si commuove. Ci si appassiona ed emoziona. In una logica anti-fantasy, lo spunto di una magia fatta di carta e musica (più evocativo il titolo originale Kubo and the two strings) ha un forte impatto poetico. Ed è su questo, e sulla potenza quasi trascendente delle immagini, che il film riesce a portarci in un’altra dimensione. Un mondo a metà, con i suoi dilemmi, le sue spiegazioni, le sue logiche. In un senso epico-lirico d’antichità atemporale e archetipica.

Kubo e la spada magica – l’immortale bellezza del raccontare

Kubo è un bambino guercio che vive in una grotta con la madre. Ha lo strano potere di piegare la carta attraverso la musica. E lo usa per raccontare storie al vicino villaggio. Formula d’entrata che cattura l’attenzione di tutti, e poi comincia. È la storia dell’impavido samurai Hanzo, suo padre, e delle sue imprese contro i mostri (e galline sputafuoco) per impossessarsi dei tre pezzi dell’armatura che gli permetteranno di combattere contro il Re della Luna. Ma la storia che racconta non è inventata. La madre, persa nell’angoscia di una memoria che sfuma, l’ha vissuta in prima persona. Per questo, per farlo sfuggire al Re della Luna, raccomanda al figlio di tornare alla grotta prima che il sole cali. Perché il Re vuole strappargli il suo unico occhio (echi di Coraline). Ma, una sera, mentre prova a parlare con lo spirito del padre, Kubo s’attarda. Ed è subito incubo.

Il regista Travis Knight sa il valore della paura. E la sa usare al momento giusto. Le sorelle della madre di Kubo sono volteggianti esseri che intessono nebbie e inquietudine. Kubo, costretto alla fuga, dovrà trovare i pezzi dell’armatura per poter affrontare il Re della Luna. Ma nella sua impresa sarà accompagnato da una scimmia materna e da un samurai-scarabeo con amnesia e maledizione. Nonché dall’effigie di carta del suo defunto padre.

Kubo e la spada magica – delicatezza di forme e contenuti

Semplicità di dialoghi e linearità di trama non intaccano la scorrevolezza. Lo splendore dell’animazione, l’accuratezza nel trattamento visivo e relazionale dei personaggi riescono a mettere in sottofondo le facili aspettative di lieto fine. Eppure, il lieto fine risulta a metà, supportato da un’accettazione di lutti e finitezza di ogni cosa. A parte delle storie. La poetica con cui i racconti divengono porta per l’infinito si mischia al volo degli aironi verso i luoghi in cui i morti vogliono andare.

Il target infantile regge. Mai serioso ma sempre improntato al racconto, solo in saltuari (quanto azzeccati) momenti il film si lascia andare a battutine e ammicchi. Lì si dirada per un momento l’atmosfera “altra”, il magico straniamento che la forza di colori, immagini, musica e racconto riesce a creare, per farci tornare con i piedi per terra. Ma è solo un momento. Lo stesso finale rifugge i facili escamotages e preferisce rimanere fedele alla logica intrinseca del racconto.

Per concludere…

Forza visiva, di colori e movimenti, di simbolismo, di canto mitico. Kubo e la spada magica è un film apprezzabile in ogni suo aspetto, da qualunque target. Rifiuta l’ovvia magia disneyana – accettandone in parte i buoni sentimenti – per mettere in gioco una magia più sottile. Più nascosta. Più (se vogliamo) spirituale. La differenza che passa tra un’esplosione e uno sbuffo. Tra il divertimento e la serenità. Tra un inno e una ninnananna. Tra il dire e il raccontare.

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