Il drago invisibile si aggiunge alla lunga pila di rispolveramenti degli ultimi anni. Però, a differenza di molti altri, funziona. Funziona per il target che cerca, per gli strumenti utilizzati, per quel pizzico di magia Disney che riesce a evocare. E per riuscirsi a rinnovare pur staccandosi dall’originale del 1977.
Il drago invisibile – ricetta canonica con l’aggiunta di meraviglia
Pete (Oakes Fegley), un ragazzino di 5 anni, è vittima di un incidente d’auto in mezzo a una foresta, nel quale perdono la vita entrambi i genitori. Rimasto solo, viene salvato e accudito da un drago verde peloso che ha l’incredibile capacità di rendersi invisibile, a cui dà il nome di Elliott, protagonista di un libro che stava leggendo nel momento della tragedia. Passano sei anni. Potenza di natura svettante e malinconie di cieli osservati in due. Tra Elliott e Pete è nata una relazione profonda, quasi simbiotica. È l’incontro con la guardaboschi Grace (Bryce Dallas Howard) e sua figlia Natalie (Oona Laurence) che cambia tutto. Amici divisi, ma scoperta di un universo dimenticato. Doppia meraviglia: per Pete la vita da bambino, per gli altri la vita e l’amico di Pete. Il cognato di Grace (Karl Urban) vuole catturare il drago. Ma è mosso più dalla paura che dalla malvagità. Toccherà a Pete e Natalie – slegati dalle costrizioni del mondo adulto – provare a salvarlo.
Chiari binomi moraleggianti. Grace materialista contro il padre sognatore (Robert Redford). Mondo civile contro mondo incontaminato. Bambini contro adulti. Ambientalismo contro logica del profitto.
Pur non lavorando certo sul realismo (ed eccedendo di quando in quando nel didascalico… come se i bambini avessero bisogno di più spiegazioni), il film riesce però a tratteggiare l’intima amicizia tra un bambino e una creatura non parlante in CG. Riesce a sottendere a immagini e dialoghi una giusta dose di meraviglia e magia. A casa Disney, se ne sentiva la mancanza.
Per concludere
Una favola con ritmi, trama, dialoghi, regia molto ovvi. Una favola disneyana che più non si può. Però, se si riesce a guardare con uno sguardo partecipato, può toccare le corde giuste. E arrivare anche a commuovere.