Il punto debole de I magnifici sette è non osare troppo. Rimane nella scia dei suoi due predecessori (l’omonimo del 1960 e I sette samurai del ’54) portando a sprazzi lampi di contemporaneo. Non potendo ricalcare la forza epica di silenzi e sguardi dell’originale (il pubblico attuale lo consente poco), Antoine Fuqua doveva cercare altro. Quello che ci hanno insegnato Tarantino e i Burrito Western alla Rodriguez è che il genere non è morto finché lo si riesce a reinterpretare. Con I magnifici sette, ci si riesce a metà. Sulla carta. Sul concept dei personaggi e sulla sua resa visiva e caratteriale. Perde sui dialoghi. Troppo ammiccanti. E, in parte, sulla regia. Pulita ma tendente all’omologazione.
I magnifici sette – parola d’ordine: non osare
La cittadina di Rose Creek è sotto la morsa del bandito/magnate Bartholomew Bogue (Peter Sarsgaard), e, dopo una carneficina di paesani, la neo vedova Emma Cullen (Haley Bennett) va alla ricerca di qualcuno che possa aiutarli. I primi saranno Sam Chisolm (Denzel Washington) e Josh Faraday (Chris Pratt). Piano piano, altri cinque si aggiungeranno al gruppo. Forte eterogeneità e caratterizzazione. Un giapponese, un messicano, un sudista, un indiano, un cacciatore dalla forte religiosità. Il politically correct è buona scusa per giocare con i tipi. Mai approfonditi, ma sempre chiari. Personalità che traspaiono anche da posture e stili di combattimento. Qualche perplessità sulle motivazioni.
Dopo la prima sparatoria, i sette hanno una settimana prima dell’arrivo di Bogue e del suo esercito. Addestramenti (poco convincenti) e preparazioni tra esplosivi, munizioni e trincee nascoste. Si arriva agli ultimi tre quarti d’ora di battaglia finale. Registicamente non mozzafiato, ma mai noiosi.
Occhio a Tarantino sempre presente (vedi Django e Hateful Height). Ma Fuqua non ne è incatenato. Riesce a trovare in scene e frasi di repertorio (forse stantie) un cuscinetto sul quale appoggiarsi. Diversamente dall’originale, l’epica e la profondità simbolica dei personaggi è stemperata a favore di un’aria più disimpegnata. Ma, in questo, Fuqua sbaglia a non esagerare. Lo stereotipo non riesce a farsi archetipo ma nemmeno a connotarsi. I giochi di sguardi e paesaggi non mordono. Si patinano scene e personaggi, usando poco sangue ma anche poca crudezza. La colonna sonora si fa notare, ma non sempre coglie i tempi giusti. Recitazioni nelle righe (Ethan Hawke il più memorabile e sofferto), per quel che i dialoghi stereotipati possono offrire.
Per concludere…
I magnifici sette è una rilettura che non osa abbastanza. Troppo equidistante tra i due modelli – Tarantino e l’originale – non riesce a crearsi un terzo polo. Aggiunge una patina non necessaria. Gioca, ma troppo poco, con i personaggi. Non è un pugno. Non ha un potente respiro universale. È una piacevole carezza con sospiro.