Hungry Hearts – Recensione del film di Saverio Costanzo presentato a Venezia

Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, portando a casa le due Coppe Volpi per le migliori interpretazioni maschili e femminili, arriva, dopo mesi dalla presentazione veneziana, Hungry Hearts, la nuova opera del regista Saverio Costanzo, ancora una volta nelle vesti anche di sceneggiatore.

Il film è tratto dal romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso e racconta la storia di due giovani sposi la cui vita viene cambiata dalla nascita di un figlio. La madre, interpretata da Alba Rorhwacher, si convince di portare nel grembo un bambino speciale e perciò, una volta nato, decide di proteggerlo dal mondo esterno, mantenendolo puro in tutto e per tutto; il suo atteggiamento finisce tuttavia per diventare ossessivo, mettendo a repentaglio la salute del piccolo. Il padre, interpretato da Adam Driver, si trova dunque combattuto fra l’amore per la moglie e la sensazione di impotenza mentre guarda il proprio figlio deperire di giorno in giorno.

Saverio Costanzo mette su un film quadrato, intimo, che descrive l’arco di una storia d’amore e la conseguente battaglia ideologica tra due genitori che, in modi differenti, vogliono comunque il meglio per il loro bambino. La scrittura di Costanzo è, come suo solito, molto incentrata sui protagonisti che si muovono in scena; vuole che impariamo a conoscerli, ad apprezzarne le qualità e a individuare le loro mancanze, prima di portarci sul piano esplicitamente conflittuale del film. Il titolo parte infatti dolcemente, con un tono divertito, per fare da preludio a una seconda parte ben più grave; sin da subito, però, Costanzo mette in chiaro che lo scopo è quello di entrare nella testa dei personaggi, di mostrare i loro comportamenti e la concezione che ciascuno ha del microcosmo in cui vive e dell’immenso spazio che invece li circonda.

Durante la gravidanza, e ancora più dopo la nascita del bambino, gli eventi si fanno più burrascosi. Mina (Rohrwacher) si rende conto che il mondo circostante è una palude infetta e il suo istinto materno le impone di proteggere suo figlio da questo incubo; New York è lo scenario perfetto per rappresentare una dimensione feroce, pronta a inghiottire chiunque vi si avventuri ingenuamente e speculare, nella sua selvaggia natura metropolitana, al guscio decontaminato che è il piccolo appartamento della coppia. Bisogna chiarire una cosa, le mentalità contrastanti dei due genitori dipendono ciascuna da una linea di pensiero ben precisa, una che definiremmo tradizionale e un’altra più comunemente definita alternativa; va da sé che il retaggio culturale del singolo spettatori finisce per influenzare facilmente il giudizio sui personaggi, ma il cuore del film non è chiedersi se sia meglio una dieta mediterranea o una macrobiotica, quanto mostrarci due modi diversi di allevare un neonato che, per via della sua età, deve irrimediabilmente i suoi primi anni di formazione alle scelte dei genitori. Sia Mina che Jude (Drive) amano il proprio figlio ed è questa la base da cui è fondamentale partire; il punto di non ritorno per la madre arriva quando il suo desiderio di proteggere il bambino diviene ossessione, volendo mantenere pura la vita del piccolo isolandolo da tutto ciò che costituisce la vita stessa. Nonostante ciò, la sceneggiatura non sembra voler puntare il dito verso Mina o Jude, indicando un vero e proprio colpevole; è qui che interviene invece la mano del regista.

Costanzo fa uso di una regia piuttosto invadente, che segue i personaggi, arrivando però ad assalirli; non si preoccupa di dosare obiettivi che addirittura, con l’utilizzo di grandangoli, distorcono la figura di Mina dandocene un’immagine troppo esplicitamente pericolosa. Il pubblico, oltre ad avvertire eccessivamente la presenza del regista, prendendo eccessiva coscienza della finzione del film, si trova quasi costretto, per via della costruzione formale, ad accettare la madre come il nemico, effetto oltretutto accentuato da un uso della musica che sarebbe più appropriata per il Norman Bates di Psycho. Per buona parte della pellicola, viviamo il dramma che Jude prova sulla propria pelle e Mina raffigura il mostro dalle cui grinfie è necessario sottrarre il bambino; questo rende più passivo lo spettatore, a cui forse sarebbe stato meglio lasciare maggiore libertà, intervenendo sull’estetica del film in maniera più discreta. Parlerei di momenti effettivamente controproducenti all’esigenza della storia, il che risulta strano considerando che la sceneggiatura è opera dello stesso Costanzo; questo è probabilmente il neo maggiore del titolo, che calca la mano quando sarebbe bastato un tocco più in punta di fioretto. Un montaggio semplice ma con ampie ellissi, a cura di Francesca Calvelli, dilata il tempo e, pur ripetendosi con la stessa cadenza durante la visione come a dividere il film in atti, lascia all’immaginazione del pubblico l’inevitabile deteriorarsi del rapporto fra i due protagonisti; buona la colonna sonora di Nicola Piovani integrata da brani non originali, non sempre però inseriti perfettamente, e notevole la fotografia di Fabio Cianchetti, contraddistinta da un apprezzabile effetto patinato.

La storia, nonostante la superflua virata retorica del sogno di Mina, avvolge nel complesso lo spettatore e, in base alla propria predisposizione mentale, assistere alla disputa ideologica smuove, soprattutto in alcuni episodi, l’animo di chi guarda; ciò che  giusto e ciò che è sbagliato sembra facile da discernere, ma con occhio più attento il confine diviene sottile e la questione si fa dunque più intrigante. Il tema del cibo è ovviamente solo il mezzo per parlare di quei “cuori affamati” del titolo che sono i protagonisti, tutti bisognosi d’amore, ma ognuno incapace, in un determinato momento, di provvedere al bisogno dell’altro, finendo per ritrovarsi soli o con una parte di cuore mutilata.

La versione italiana tiene il passo con quella originale, eccezion fatta per il ruolo di Alba Rohrwacher, che ritrovandosi a doppiare se stessa non mostra grandi doti da doppiatrice, ridimensionando l’interpretazione che le è valsa il premio a Venezia; un formidabile Adam Driver si rivela il compagno ideale in questo passo a due con la Rohrwacher e anche Roberta Maxwell, che nel film veste i panni della madre di Jude, regala l’interpretazione di un genitore che, come i protagonisti, reca con sé valori e difetti.

Hungry Hearts è dunque una storia semplice per quanto può esserlo raccontare il confronto fra due persone con ideologie differenti, ognuna convinta di essere nel giusto. Saverio Costanzo realizza un titolo non per tutti e non privo di difetti, ma le cui chiavi di lettura possono attrarre lo spettatore avvezzo a storie più intime, pronto a mettere in questione ciò che solitamente si darebbe per scontato, facendo affidamento sui propri pregiudizi e sul proprio pensiero. Le ottime interpretazioni del cast aggiungono un elemento di verità indispensabile per il tipo di film e fanno da contrappeso alla smaniosa voglia di Costanzo di far sentire il suo contributo alla regia, che rischia di spezzare l’incantesimo. Non prendere la lotta fra i due genitori come una gara è la chiave per godere del film, che non vuole dare essenzialmente risposte alla fine, ma preferisce minare le convinzioni di chi guarda nella speranza di far sorgere considerazioni nuove e magari sorprendenti.

Hungry Hearts, prodotto da Wildside e Rai Cinema, uscirà nelle sale il 15 gennaio, distribuito da 01 Distribution. Il titolo sarà proiettato, in alcuni cinema selezionati, anche nella versione originale, caldamente consigliata. QUI potete trovare il video della conferenza stampa con il regista Saverio Costanzo e la protagonista Alba Rohrwacher.

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