Fai bei sogni – Recensione: un dramma spogliato

fai bei sogni poster

Fai bei sogni è il film tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Gramellini. Ma col romanzo, trama a parte, non c’entra nulla. La prosa del Gram, fatta di leggerezza ed emotività (spicciola), viene svuotata di queste sue due componenti essenziali. Quello che rimane è un dramma d’interiorità, sguardi e silenzi. Il regista Marco Bellocchio non si fa problemi a delineare un’atmosfera pesante, funerea, grigia. In alcuni momenti risulta troppo indigesto, e le due ore e un quarto di durata non aiutano. Però, in fin dei conti, riesce a tenere l’attenzione alta, soprattutto grazie all’ottima recitazione dei protagonisti (Valerio Mastandrea Barbara Ronchi su tutti).

Fai bei sogni – non si sfugge al proprio passato

“Fai bei sogni” è l’ultima frase che la madre di Massimo, bambino in una Torino anni ’60, gli dice prima di morire. Rimane l’interrogativo su come sia successo. Anche se spaccati di vita – futura e passata – ci danno indizi. Afasie, indecisioni, pianti improvvisi. Un padre taciturno, poco propenso ad aprirsi al novello orfano. Una tata lontana che non può e non vuole colmare il vuoto lasciato. Il tormento e le risposte di un bambino: atti estremi, ricerca di un amico/tiranno immaginario (Belfagor) che dia ordine e certezze nella sua vita.

fai bei sogni

Bellocchio non sceglie la via facile dell’immedesimazione. Segue il bambino, ne segue le logiche e le vicende, ma non entra mai in lui. Opta invece per ammantare il tutto in una luce fredda, pervasiva. Ombre nette, pochi fronzoli e poche patine. Senso d’estraneità angosciata dalle faccende che ci scorrono davanti. Memorabile la scena del funerale. Rabbia e vuoto di un’infanzia che non crede ancora nella morte. Men che meno in quella di una madre.

Massimo cresce. Il padre muore, e lui si ritrova a mettere a posto casa e ricordi. I flashback ci mostrano una vita attiva, ma sempre desolata, vuota. Tra Sarajevo e belle ragazze con le quali non riesce ad aprirsi, quella di Massimo è una non vita in cui accadimenti eccezionali o emotivamente impegnativi vengono visti freddamente, nostalgicamente da fuori. Non c’è riscatto, non c’è speranza. Solo un po’ di calore dato dall’amata Elisa (Berenice Bejo). Passato deformato, incompleto, che proprio per la sua instabilità non permette all’individuo di vivere appieno il presente. Né di poter sperare in un futuro.

Fai bei sogni – momenti di calore fuggiaschi

In Fai bei sogni, l’ironia di Gramellini lascia il posto a un’angoscia esistenziale. Il finale rifiuto di epifania e catarsi, unito a visioni simboliche, non fa che acuire questo senso di instabilità. Come se, laddove un passato viene a mancare, laddove un bambino non ha potuto plasmare la propria indipendenza, si cadesse in un tetro girotondo che blocca qualunque possibilità di futuro.

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Fotografia glaciale, grigia. Ma la regia riesce a catturare a sprazzi momenti d’intimità preziosi e briciole di sentimento. Subito fuggiaschi. Primi piani che cercano sguardi disarmati, incapaci di spiegare o capire. Qualche retorica sulla fede che dà un piccolo appiglio d’insperato calore.

Per concludere…

Fai bei sogni c’entra poco col libro. Bellocchio e Mastandrea riscrivono la storia di Massimo in una visione tormentata, colma solo di vuoto. Per le ottime prove d’attore e per la regia sapiente, il film vale. Di contro, rischia con la sua lunghezza e la sua frammentarietà di essere pesante. Spaesante. Confuso. Come quelle vite che non possono scrollarsi di dosso il proprio passato.

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