Cast gigantesco, produzione colossale e premio al Festival di Roma 2014. Per essere al suo primo lungometraggio da regista, Andrea Di Stefano ha fatto davvero faville grazie a Escobar: Paradise Lost.
Il film scolpisce la figura di Pablo Escobar, narcotrafficante e influente uomo politico colombiano che ha segnato il proprio Paese fino agli anni ’90, ma le cui cicatrici sono tuttora visibili. Guidato dalla volontà di analizzare la dualità intrinseca nel personaggio – causa di sofferenza per molte famiglie, ma allo stesso tempo fautore di opere mirabili per la povera comunità della Colombia – il regista mostra i chiaroscuri di Escobar facendo la spola con la storia romantica dei due giovani protagonisti, Nick e Maria.
D’impostazione circolare, il film gioca molto con i piani temporali. Sin dall’inizio ci vengono mostrate alcune battute finali del film e veniamo poi catapultati in medias res, quando per i personaggi avviene una vera e propria rivoluzione narrativa che ci condurrà fino alla conclusione.
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La prima parte della pellicola si concentra prevalentemente sull’evolversi del rapporto tra Nick e Maria. Nick è un giovane canadese trasferitosi in Colombia col fratello sperando di trovare il paradiso tanto millantato in patria, mentre Maria fa il possibile aiutando la propria comunità e sostenendo la campagna dello zio, proprio Pablo Escobar. Questa porzione di film procede lentamente e a causa di ciò, il film impiega parecchio per coinvolgere realmente lo spettatore, che assiste alla storia d’amore non propriamente rapito; toccando a tratti le note di un dramma sentimentale, il titolo sembra indirizzarsi verso lidi lontani dal resto del film e alla lunga finisce per annoiare. È necessario attendere l’entrata in scena di Escobar per far sì che l’interesse si riaccenda.
La comparsa di Pablo avviene in maniera spensierata, impegnato in un discorso al popolo per una Colombia migliore. Inquadrato sul palco, circondato da povera gente che inneggia al suo nome mentre egli inaugura un nuovo ospedale, il personaggio risulta più amichevole che altro; saluta, stringe mani e forse l’unica caratteristica ambigua è il volto granitico di Benicio Del Toro. Da qui comincia il viaggio di Nick e dello spettatore alla scoperta di questa figura tanto misteriosa e già dal secondo incontro le ombre cominciano a circondarla. Questo è sicuramente il punto più interessante della pellicola ovvero mostrare le due facce di Escobar, soprattutto attraverso la percezione che ne hanno coloro che lo circondano; il popolo e la famiglia lo amano – la stessa Maria lo vede come uno zio amorevole per gran parte del film – ma la crudeltà e la freddezza con cui è capace di liquidare qualcuno lasciano esterrefatti e Nick ne è testimone involontario.
Proprio perché il personaggio di Escobar è analizzato attraverso la lente degli altri personaggi, considerare superflua la storia di Nick sarebbe sbagliato. Guidato inizialmente dall’amore per Maria, il giovane protagonista è successivamente costretto ad agire per assicurare la sopravvivenza sua e di chi ama; il vero volto di Escobar viene svelato e l’unico modo per guadagnare la libertà è recidere i fili che legano il ragazzo al narcotrafficante. La seconda metà del film assume così una luce diversa e seguiamo l’intenso viaggio negli inferi del protagonista, assistiamo all’incontro tra l’animo limpido di Nick e quello torbido di Escobar e a ciò che ne deriva. Sequenze d’azione ben gestite e segmenti emotivamente forti si alternano abilmente fino all’inevitabile epilogo.
Un colossale Benicio Del Toro sorregge gran parte del lungometraggio dando vita a un Pablo Escobar che passa con eleganza dallo spietato criminale all’amorevole e spesso bonario padre di famiglia; anche Josh Hutcherson ne esce molto bene, trovando un ruolo drammatico azzeccato e nel pieno delle sue capacità. Lo stesso vale per Claudia Traisac nella parte di Maria e Brady Corbet in quella del fratello di Nick, che danno un’ottima prova andando a impreziosire il grande cast.
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Nonostante Di Stefano sappia gestire bene i vari reparti e la sua sceneggiatura scorra più o meno piacevolmente fino alla fine, il film perde man mano che prosegue il punto focale iniziale ovvero mostrare la dualità di Escobar. L’attenzione si sposta piuttosto su Nick e sul modo in cui questi si rapporta al mondo di Pablo; se è vero che concentrarsi esclusivamente sull’ambiguità del boss della droga avrebbe potuto stancare alla lunga, non si esce dalla sala combattuti sull’identità di Escobar, che in fin dei conti viene mostrato effettivamente per il mostro che è stato. Dunque il film si rivela una discesa infernale da parte di un giovane sognante in un falso paradiso inquinato dalla sete di potere di un criminale. L’avventura di Nick e il suo esito, in ogni caso, intrattengono il pubblico e danno vita a un prodotto ben confezionato. Considerandolo come film a sé, definirlo una gemma sarebbe sconsiderato, ma dall’ottica di un’opera prima, la fatica di Di Stefano e del cast è senza dubbio lodevole.
Escobar: Paradise Lost è diretto e sceneggiato da Andrea Di Stefano, mentre il cast vede la presenza di Benicio Del Toro, Josh Hutcherson, Claudia Traisac, Brady Corbet, Carlos Bardem e Ana Girardot. Di produzione franco-spagnola, il film non ha ancora una distribuzione italiana, ma può vantare il Premio alla migliore opera prima conquistato durante il Festival di Roma 2014.