È solo la fine del mondo (qui il trailer), la morte. Ciò che non è “solo”, sono le torbide relazioni famigliari. La vera paura viene da lì. Non dallo sconosciuto, ma dal mostruoso conosciuto. Xavier Dolan, con lo stile carico che abbiamo già visto in Tom à la ferme, ce lo fa cogliere molto bene. Anche troppo. Il ritmo lento, l’ossessivo accanirsi in primi e primissimi piani, annegano lo spettatore. Non gli lasciano vie d’uscita. L’ottimo cast ci tiene sulla sedia, incollati e ansanti per la mancanza d’aria. Ma il film, gran premio della giuria a Cannes, complice l’assenza d’azione (è tratto da una pièce teatrale), proprio per la sua maestria registica può paradossalmente risultare nauseante.
È solo la fine del mondo – ritratti di urla e silenzi
Louis (Gaspard Ulliel), sceneggiatore teatrale di fama, torna a casa dopo dodici anni di assenza. Deve riuscire a dire alla sua famiglia che sta per morire. Ma ha paura. Paura della madre (Nathalie Baye). Vedova che prova un affetto incondizionato per lui. L’unica che sembra capire gli strani legami che si sono instaurati nella famiglia e il ruolo che ciascuno di loro deve recitare. Paura della sorella Suzanne (Léa Seydoux). Ragazza giovane, stanca, seme di ribellione rabbiosa. Non ha mai conosciuto il fratello, e ora ondeggia tra ammirazione e disprezzo. Paura della cognata Catherine (Marion Cotillard). Bella, acuta ma impenetrabile. Parla del più e del meno, ma coglie molto più di quello che dice. Paura, infine, del fratello Antoine (Vincent Cassel). Colmo di rabbia, sputa sentenze e odio. Uomo legato a una semplicità di facciata. Opposto di un Louise introverso, sensibile, attento alla poesia delle cose. Legati dall’essere fratelli, da un passato comune, ma con una distanza di modi e visione. Invidia? Rabbia? Repressione?
La vicenda si snoda su dialoghi vuoti, da quotidianità famigliare. Chiunque abbia a che fare col quotidiano, deve fare i conti con Pinter. E qui l’impronta del Nobel per la letteratura si sente, ma viene schivata la sua poetica dello svuotamento. Sotto alla scorza grottesca del quotidiano qualcosa c’è, ma è impalpabile, fuoriesce a sprazzi, a sguardi, ad ammonimenti. Esiste e si intuisce, ma non ha nome né forma.
È solo la fine del mondo – realtà che soffoca
La fotografia accoglie luci e bui di un ambiente chiuso, soffocante come lo sguardo di chi osserva. Rifugge le patine, che escono nei flash della memoria. Ma il tempo presente è impietoso. Occhiate fugaci all’orologio. Non hai ancora detto niente, Louis. E il mondo non aspetta. Su un muro bianco, un cucù continua a far sentire il suo peso. Uccello ingabbiato in una scatola di pareti famigliari e impenetrabili parole non dette. Quella di Louis è una lotta contro il tempo, passato d’assenza e presente prigione di parole. L’unico spiraglio, alla fine, sembra essere un futuro vuoto, di morte.
La regia sceglie un occhio morboso, sempre indugiante su volti, sguardi. Quasi esclusivo colore della tavolozza di Dolan, primo e primissimo piano vengono però sviscerati e stesi con gran varietà di sfumature. Zoom. Camera che gira intorno ai volti, andando a plasmare volumi e chiaroscuri. Primo piano che perde fuoco per la troppa vicinanza. Campi-controcampi prima rispettati poi traditi. Particolari: mani, steli d’erba, cibo. Una colonna sonora che irrompe nei silenzi, rompendoli, e ci strania da quel mondo insensato e quotidiano. Finale ambiguo che spiega tutto senza spiegare.
Prove d’attore magnifiche. Ulliel è smarrito osservatore. Baye splendida maschera di plastica che ha capito tutto quello che c’è da capire. Cassel sordo di rabbia, di ricordi interrotti, e di verità alternative. Le sue grida sono quelle di chi non ha mai trovato le parole giuste. Cotillard, discreta, ambigua bambola. Parla di bambini, di cose futili, ma il suo sguardo coglie molte cose. Seydoux, vittima innocente di follie famigliari. Di rancori e rapporti mal aggiustati, di mezze verità, di non detto. Post-adolescente in fuga da se stessa.
Per concludere…
È solo la fine del mondo è un film impegnativo. Premio della Giuria certo meritato, sia per la maestria registica, che per la bravura di tutti gli attori. Ma, specie per chi è abituato a un cinema più disimpegnato o narrativo (in sostanza non accade nulla), rischia di essere claustrofobico, opprimente. Per chi non ha di questi problemi, invece, è un bel tuffo dentro silenzi e sguardi. Dentro il mostro dei rapporti famigliari, delle cose non dette. Dentro vite passate a non capire nulla, se non che, oltre quel mostro, forse c’è qualcos’altro.