Ben Hur – Recensione: rivivere un kolossal sgonfiato

Guardare Ben Hur senza metterlo a confronto col colossal/cult del ’59 è impresa ardua. La cosa che salta subito all’occhio è la durata: due ore contro le tre e mezza dell’originale. Certo, i fatti raccontati vengono oggi ridotti, ma l’intero impianto ne risente. La pellicola che ne esce ha ritmi troppo rapidi, bucherelli di trama, ambiguità di caratteri e dialoghi raffazzonati. La potenza iconica di immagini e scenografie viene perduta. Al suo posto, ammicchi citazionisti e spettacolarità spicciola. Location giuste ma sfruttate male.

Ben Hur – la straordinaria incapacità di ricreare un mito

Giuda Ben Hur (Jack Huston) è ricco e influente giudeo di Gerusalemme. Il fratellastro Messala (Toby Kebbell) vive il suo essere romano come diversità. Pur legato al fratello, decide di arruolarsi nell’esercito per riscattare il proprio nome. Torna con potere e onorificenze ma in una situazione sociale drammatica. Zeloti contro romani, romani contro giudei, giudei che non sanno che pesci pigliare. Giuda prova a mantenere una posizione moderata, votata all’equilibrio precario. Ma al fratello non basta. Pretende dei nomi, inutilmente. Durante la parata d’ingresso di Ponzio Pilato, uno zelota soccorso da Ben Hur e nascosto nella sua casa, attenta alla vita del prefetto (n. b. nell’originale una tegola cadeva per sbaglio dal tetto della casa di Ben Hur: la colpa parziale smonta completamente il senso d’ingiustizia assoluta di cui Giuda era vittima). Messala si dimostra senza pietà.

Madre e sorella condannate a morte. Giuda condannato a finire la sua vita come schiavo vogatore in una galea da guerra. Ma, dopo cinque anni, in una battaglia poco propizia ai romani, la nave viene distrutta e Ben Hur si ritrova naufrago. Salvato da un vecchio (Morgan Freeman) che viaggia verso Gerusalemme per partecipare alla gara di quadrighe, Ben Hur forse ha trovato uno strumento di vendetta contro il fratellastro.

Ben Hur è storia di motori atavici dell’uomo come onore, vendetta e fede. Tutto viene sgonfiato dalla resa poco abile. Dai dialoghi strampalati. Dalle ragioni dei personaggi che, da un momento all’altro e senza motivo alcuno, sembrano cadere. Le comparsate di Gesù (Rodrigo Santoro) sono pillole di saggezza spicciola che ammicca alla morale dell’amore più che a un’idea più complessa di Fede. Il finale a tarallucci e vino sembra troppo una pubblicità del Mulino Bianco. Nessuno degli attori spicca. Nessuno dà nulla in più. La musica e il taglio di luci e fotografia danno un’insopportabile vena da soap.

Per concludere…

Addolcito, sgonfiato, tradito. Patinato, edulcorato. Questo colossal in versione tascabile risulta noioso. Regia prevedibile, distante ma non abbastanza da aver sapore epico. Spara a zero con battute pseudoprofonde ed emozioni che pretendono un’universalità che non raggiungono minimamente. Un’ora e mezza in meno, ma non è più leggero.

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