American Pastoral – Recensione: denso gomitolo d’emozioni e rapporti

American Pastoral è l’esordio alla regia di Ewan McGregor (L’uomo che fissava le capreBig Fish). Un esordio di tutto rispetto: non cerca ammicchi facili al pubblico. Anzi, affronta una storia coraggiosa per temi trattati e profondità dei rapporti. Tratto dal romanzo di Philip Roth vincitore del Pulitzer, American Pastoral è una storia straordinariamente vera, un pugno emotivo allo stomaco, un’indagine sui rapporti indistricabili che creano e distruggono una famiglia.

American Pastoral – l’ineffabile legame tra Storia e storia

La storia prende spunto da una riunione liceale di ex-ragazzi ormai già sessantenni. Uno scrittore di successo (David Strathairn) reincontra il vecchio amico Jerry Levov (Rupert Evans). Questi gli svela che si trova in città per il funerale di suo fratello Seymour (Ewan McGregor). Lo Svedese. Il migliore giocatore di football del liceo. Colui che aveva sposato la bellissima miss Dawn (Jennifer Connelly). Colui che avrebbe ereditato una prolifica fabbrica di guanti. Colui che tutti avrebbero immaginato con un perfetto finale da fiaba. Per sempre felice e contento. E invece…

Riviviamo la storia di Seymour dopo la nascita della figlioletta Merry. Bionda, bella, con l’unico difetto della balbuzie. Ma si affacciano le prime ombre. Perplessità della psicologa sui motivi del tartagliamento. Semplice disfunzione, o unica arma per rivaleggiare con la bellezza della madre? Il legame morboso tra padre e figlia esce e subito rientra, ma rimane a insidiare l’occhio dello spettatore per tutto il film. Sembra essere l’unica vera nuvola che turba la serenità. L’unico vero motore che muove i fili dei rapporti famigliari.

Tra immagini dell’epoca e la travagliata politica interna ed estera degli USA anni ’60/’70, McGregor tiene sempre d’occhio la Storia. E la fa vivere nelle faccende quotidiane, piccole ma tragicamente emblematiche, della famiglia Levov. Ormai adolescente, Merry (Dakota Fanning) abbraccia una rabbia che, partendo dall’amore/odio incestuoso e mai risolto, si propaga verso il mondo esterno. Abbraccia Marx, la lotta armata, si scaglia contro la guerra in Vietnam, il sistema, la borghesia incarnata dal padre. Fino a un tragico epilogo. Attacco dinamitardo nella cittadina, Merry sparita. Seymour non può credere che sia stata lei. E comincia la sua disperata ricerca. Mentre Dawn cede all’indifferenza e alla tristezza, dimenticando di essere madre.

American Pastoral – mormorio di incesti mancati

L’occhio di McGregor è sempre vigile. Sceglie una fotografia che esalti alternativamente ombre e luci, una regia che ricerchi equilibrio tra esteriorità del racconto e intimità dei rapporti. Dialettica tra cardini marxisti che semplificano la vita all’osso e una vita, quella di Seymour in cui ciò che conta sono le relazioni famigliari. Visioni inconciliabili, inconsolabili rotture.

Parabola di un sogno americano che si frantuma nel momento della realizzazione. Le patine dell’immaginario perfetto si sciolgono di fronte a una realtà che non è cruda, non è tragica, ma soltanto imprevedibile. Nel momento in cui l’ideale di vita di Seymour si scontra con quello della figlia, è ricerca di colpe. Su di sé. Su terzi. Su supposti lavaggi del cervello. Ricerca che rimane senza vere risposte.

I tre attori principali (McGregor, Connelly, Fanning) magnifici. Pur se la sceneggiatura fa finta di niente, l’intreccio dei loro rapporti è marchiato dalla paura di morbosità, di un incesto mancato ma mai superato. Connelly splendida nel passare dall’ansia alla follia e, infine, alla fredda rassegnazione, speranza/preludio di una vita normale (e inesistente). Adolescenzialità della Fanning più che convincente. Rabbia insensata, figlia della repressione, e racchiusa in una gabbia di razionalità vuota. A cui il padre, forse accecato o forse illuminato dall’amore, non crede.

Per concludere…

Storia di un uomo, di un padre, e delle sue ricerche di una disperata serenità. Cerca motivi, colpe, cerca se stesso, una moglie, una figlia. McGregor ci rende partecipi ma senza mai farci identificare del tutto. L’occhio rimane critico, apartitico. Dai sistemi di pensiero, alle relazioni, alle conseguenze, trova meschinità e valore di ogni cosa senza mai spostarsi su un giudizio definitivo. Un ottimo esordio, che presenta la realtà come denso e inestricabile gomitolo di rapporti e ragioni.

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