La domenica mattina ci porta a incontrare Emilie Verhamme, giovane regista belga che al Torino Film Festival ha portato Eau Zoo. Un titolo particolare, dal taglio quasi documentaristico.
L’essere umano è un animale malato; i suoi naturali impulsi lo hanno imprigionato nella ragione e nella cultura. Lou e Martin, due adolescenti che vivono su in’isola, cercano un modo per sfuggire alla soffocante iperprotettività dei genitori. Saranno in grado di costruire con le loro forze una fiducia in più, in un mondo che li porterebbe a separarsi?
La Verhamme è un’autrice che si presenta particolare: Emir Kusturica, Jim Jarmusch, Ingmar Bergman sono i suoi ispiratori, alla ricerca di uno stile che la porta, piuttosto che a restare a completare gli studi cinematografici in termini puramente accademici, a lanciarsi nella produzione del suo lungometraggio di debutto, Eau Zoo, appunto. Un gioco di parole, un suono che si presta simile a “Au Zoo” (titolo potenziale per la pellicola), come se fosse una metafora particolare sull’essere umano e sulla sua condizione interiormente selvaggia e profondamente lontana dalla presunta civilizzazione.
Particolarità della direzione, che ci fa notare la regista, è una metodologia di ripresa un po’ lontana dal modello cinematografico attuale, ma più vicino a certi tipi di fotografia ritrattistica: un largo uso di obiettivi zoom, per riprendere a maggiore distanza soggetti, espressioni ed emozioni degli interpreti, per non gravare con la presenza di una macchina da presa, alla ricerca di una maggiore spontaneità.