Bob Dylan nobel per la letteratura. Dopo la morte di Dario Fo, è questa la notizia del giorno. Ho avuto modo di assistere a un suo concerto non troppo tempo fa, il 18 novembre 2015, al Teatro Manzoni di Bologna. La serata non è stata delle migliori. Tralasciamo il rapporto (quasi vergognoso) tra la durata e il prezzo del biglietto. Ok, siamo a teatro. Ok, da oltre 50 anni è una delle icone viventi della Musica. Chiudiamo un occhio. Ma quello che mi ha lasciato più perplesso è stato l’assenza di spettacolo. È chiaro: a 74 anni uno non è che si può mettere a ballare e saltellare da una parte all’altra del palco. Del resto, neanche a 30 anni Dylan era una bestia da palco. Però, insieme alla staticità, ciò che mi ha lasciato interdetto è stata la poca cura dell’effetto, la poca cura del pubblico. Scenografia al minimo, giusto qualche luce. Movimenti, come detto, zero. Delle grandi canzoni, da Mr. Tambourine Man a The times they’re changing, nemmeno l’ombra. Giusto un riarrangiamento (splendido e irriconoscibile) di Blowin’ in the wind.
Bob Dylan: poeta o cantante?
Lì credo di aver capito che non ha senso guardare un concerto di Bob Dylan. Perché Dylan non è un cantante. Non è un musicista. È, come molti non dimenticano mai di ricordare (se non oggi), un poeta. Può piacere o non piacere, non è questo il punto. A me quel concerto ha fatto cagare. Però lì ho capito che avevo davanti un poeta. Uno che si disinteressa di cosa vogliono gli altri. Uno che fa le cose a modo suo. Uno che scrive e canta per se stesso. E quello che canta per se stesso riesce ad avere valore per chiunque. Quindi ero di fronte a un grande poeta.
Critiche e controcritiche
Oggi leggo molti indignati per questo Nobel. Il giornalista Mario Baudino parla di “provocazione” da parte della commissione di Stoccolma. E provoca a sua volta, auspicando un’abolizione del Nobel. Il più importante critico letterario americano, Harold Bloom, ha scelto il silenzio. Baricco non capisce “cosa c’entri con la letteratura”. Welsh è furioso.
Ora, ragionamento base: Dylan, per voi tutti, è poeta o no? È Bardo o no? Perché, se è poeta, non vedo dove sia il problema. Montale, Quasimodo, Carducci, tutti nobel, tutti poeti. Non è poeta? Perché? Il problema è che è un cantautore? Un cantautore non può essere poeta? Il medium è lo stesso. Si aggiunge la musica. La musica toglie forse dignità alle parole? Vorremmo negare questo titolo ai “nostri” Guccini e De Andrè? Anche autori teatrali (Fo, Pinter, Beckett) vengono premiati senza che si alzino creste. Eppure, sotto quegli scrittori vi è un medium diverso dalla semplice parola. Cosa c’è che non va, dunque? C’erano nomi più validi in lizza? È possibile, ma il riconoscimento a Bob Dylan va oltre alla dimensione della pura qualità. È investitura, consacrazione. Probabilmente c’è anche un’idea propagandistica dietro questa assegnazione (un po’ come altri nobel degli ultimi anni…). D’altronde, però, è anche stupido pensare a Dylan come semplice cantautore, minimizzando la qualità e l’importanza del suo lavoro.
L’enormità di un’icona
Dagli anni ’60, Dylan è passato attraverso varie ideologie. La maggior parte di noi lo ricorda come icona di quei tempi, ma in realtà è cambiato, maturato. Sia musicalmente, toccando il rap, passando dal folk, dal rock, dal pop, dal blues. Sia come poetica e tematica. Alla grande illusione sessantottina segue lo svelamento della realtà. L’abbraccio al cristianesimo. Parentesi intimiste. Violente e ironiche denunce.
È uno dei cantautori più citati, tradotti e riarrangiati (si pensi, tra le altre, a Knockin’ on the Heavens door dei Guns e a All along the Watchtower di Jimi Hendrix). Le sue musiche sono colonna sonora di un’infinità di film e serie (Le regole del gioco, Alta fedeltà, Battlestar Galactica, Io non sono qui, Wonder Boys, Watchmen). Se ancora non fossimo contenti, in film di cui ha firmato la colonna sonora, è stato anche attore (Hearts of fire del 1987 e Pat Garrett e Billy The Kid del ’72). Per non parlare di Tarantula, libro giovanile di poesie, aforismi e giochi di parole. Bob Dylan è una figura che trascende il settore specificatamente musicale. Abbraccia un’immensa varietà di tempi e pensieri. Lirico e sociale. Rivoluzionario e religioso. Innovatore e tradizionale. Icona culturale e anticulturale.
Se andiamo a leggerci i suoi testi non possiamo fare a meno di vedere un occhio sempre attento alla contemporaneità, ma, parallelamente, anche alla dimensione interiore dell’individuo da una parte e a quella universale dell’uomo dall’altra. Uno sguardo che abbraccia tutto. Uno sguardo in cui si può riconoscere chiunque, a prescindere dall’età e dal luogo.
Per concludere…
Per concludere, torno al 18 novembre 2015. Sono uscito deluso da quella serata. Fiacca, estranea, poco incline al compiacimento. Eppure, oggi posso ripensarci a mente fredda e vedere quella delusione come la nuova luce in cui ammirare uno degli ultimi miti rimasti.