Se a volte ci fermassimo a riflettere sul tempo che passa, ci accorgeremmo che la durata di ogni nostra azione è pari alla sua meraviglia o meno artistica. Rielaborando in chiave moderna il concetto tanto caro a Einstein, ossia la teoria della relatività, potremmo quasi azzardare l’ipotesi che il capolavoro di Ridley Scott del 1979, Alien, sia appena terminato, magari da 35 secondi, o 35 minuti. Ahimè il concetto del tempo assimilato nel corso del novecento ci porta invece di fronte ad una cruda e quanto mai aspra realtà. Lo Xenomorfo più famoso di tutti i tempi ha da poco festeggiato 35 anni, dimostrando come un vero capolavoro immortale non risenta affatto del tempo anzi, rende ancora più relativo il concetto stesso.
L’analisi del film è più complessa di quanto si possa pensare. Uscito dopo l’odissea rivoluzionaria di Kubrick e le guerre stellari di Lucas, Alien ha rappresentato un media res tra due generi: poesia e prosa asciutta. Se Kubrick era uno stradivari pregiato, Lucas era pur sempre un violino ma di intonazione completamente diversa. Se il primo ha rappresentato la rivoluzione nel campo fantascientifico, il secondo ha dato il via alla produzione di blockbuster. In questo panorama cosi irto e spinoso, Ridley Scott ha saputo incastrarsi alla perfezione creando un genere a metà tra il visionario e l’iper-realismo. Alien è dunque una genesi sistemica articolata in ben 4 capitoli, una lunga quanto soave sinfonia, con una leggera stonatura finale (il quarto capitolo non è all’altezza dei primi 3).
La storia la sappiamo tutti, chi più chi meno, un cargo commerciale viene deviato lungo la rotta che l’avrebbe ricondotto verso la terra a causa di un presunto segnale di aiuto proveniente da un pianeta. L’equipaggio, in stato criogenico, viene risvegliato e dovrà indagare sull’origine sconosciuta di questo apparente SOS; sarà l’inizio di un incubo.
L’atmosfera kubrickiana si respira nelle prime scene, dove larghe panoramiche fanno ammirare i dettagli dell’universo riportandoci per un istante all’incipit di 2001 Odissea nello spazio. Poi la totalità va via via diminuendo, iniziando un tortuoso incastro tra le lamiere del Nostromo, vero ambiente del film. L’agorà si perde e subentra il claustrofobico senso di inquietudine che attanaglia lo spettatore inerme dinanzi a queste scorribande tra gli angusti spazi interni della nave spaziale. L’apparizione del mostro rompe quel delicato equilibrio che già dalla premiere piece sembra assai sottile. Il modo bruto e violento con il quale la creatura aliena si lega senza alterare nulla con il malcapitato Kane è incredibile. Un parassita che adopera il corpo umano per riprodursi, per crescere e diventare ancora più letale, senza di esso non avverrebbe nessuna mutazione. Si va così a configurare un vero e proprio ibrido innaturale, dove l’uomo funge da mezzo e non da fine ultimo. Possiamo dire dunque che Alien rappresenta il farsi identico dell’altro, è un archetipo che darà origini in secondo luogo alla sua pluralità, alla sua esponenzialità e arrivando infine alla sua immortalità.
L’azione ferocemente ossessiva del mostro di riprodursi è la dimostrazione di come egli sia costantemente impegnato in una genesi orrorifica di una discendenza del male. La paura regna sovrana nei corridoi del Nostromo, il subdolo mostro si aggira nei bui profondi, nelle inquietanti luci lampeggianti e tra i fumi delle tubature. Ripley fa vivere questa esperienza tremenda con i suoi occhi, che comunicano incessantemente attraverso esemplari primi piani lo spavento e l’angoscia che prova durante la fuga. Il finale torna ad essere un quieto addormentarsi tra le braccia dell’universo, si perde l’angusto e il claustrofobico per riabbracciare infine quella totalità universale che tanto fa piacere allo spettatore. Alien continua oggi ad essere un punto di arrivo e non di partenza, una vetta ancora intatta, un atollo ancora parzialmente inesplorato, un capolavoro immortale che riesce ancora oggi, 35 anni dopo a tenerci tutti con il fiato sospeso.
Articolo di Emiliano Cecere